La rarità di un libro può essere valutata per la presenza di illustrazioni particolarmente pregiate, di legature preziose ed ancora perché esso contiene postille o autografi di mani famose.
Ma la rarità di un testo può essere determinata anche dal fatto che di quell’edizione è rimasto solo qualche esemplare.
E’ il caso di un libro stampato a Magonza nel 1605 del quale la Fabroniana conserva una delle pochissime, copie attualmente conosciute.
Leggendo il titolo non ci si accorge il perché della rarità di questo testo. Il titolo è il seguente: De rege et regis institutione e fin qui niente di strano. L’autore è poi di tutto rispetto, si tratta di Juan de Mariana (1535-1624) gesuita spagnolo, grande umanista erudito , economista e teologo. La sintesi del volume è la seguente: in accordo con la dottrina gesuitica della superiore giurisdizione papale e dei diritti del popolo esso tratta dell’origine e dei limiti della monarchia, giustificando il tirannicidio nei casi in cui sia fatta violenza ai sentimenti del popolo. In parole povere, si può ricorrere al tirannicidio se necessario in nome del superiore diritto dei popoli rispetto al diritto dei regnanti.
Il gesuita Mariana, scrive questo qualche anno prima dell’attentato ad Enrico IV nel maggio 1610 e può esser considerato ‘il mandante morale’ di tale assassinio.
Pensiamo quindi al rumore provocato dal testo nell’Europa ‘cristianissima’ del tempo e quindi alla sorte del Mariana, che, dopo una lunga carriera che lo aveva portato a visitare molti paesi e lo aveva visto assiduo e integerrimo collaboratore della stesura dell’Indice dei libri proibiti, finì per essere perseguitato dell’Inquisizione. Il libro fu condannato e messo al rogo.
La copia in Fabroniana faceva parte forse di uno dei pochi esemplari arrivati al Sant’Uffizio per essere giudicato e qui era poi passato nelle mani del nostro Carlo Agostino durante il suo incarico in quella sede, oppure egli aveva potuto procurarsene una copia anche all’estero, grazie alla sua ‘patente di lettura’, ossia al fatto che i cardinali erano autorizzati a leggere anche i libri proibiti.
Un intero settore della Fabroniana è da considerarsi pieno di testi rari, provenienti dalla libreria personale del cardinale e riferiti alla così detta “questione dei riti cinesi”.
Senza voler qui entrare nello specifico di detta “questione” che travagliò la Chiesa nel XVII e XVIII secolo, diremo brevemente che essa fu una conseguenza delle missioni in Oriente.
Dopo alcune missioni francescane, furono i Gesuiti che arrivarono in Cina alla fine del Cinquecento e iniziarono un lungo e profondo scambio culturale con quel paese, aprendo la cultura cinese alla conoscenza dell’Europa e introducendo le scienze e molte tecnologie occidentali in quella lontana nazione. All’inizio guidati da Matteo Ricci i gesuiti favorirono l’incontro con la civiltà e la cultura cinese e vennero convertiti poche migliaia di cinesi, tra cui diversi letterati confuciani. In seguito, in particolare dal 1610 al 1723 il cristianesimo progredì lentamente e si sviluppò la polemica con altri ordini religiosi, specialmente con i domenicani, intorno al problema della tolleranza o meno verso alcune pratiche religiose dei cinesi, in particolare gli atti di venerazione verso Confucio e gli antenati della famiglia imperiale. L’adattamento dei cattolici a questi riti dette luogo a lunghe discussioni che vanno sotto il nome di questione dei riti cinesi, per la Cina, dei riti giapponesi, per il Giappone e dei riti malabarici per gli usi e costumi in India.
Il nostro cardinale Fabroni, come abbiamo visto per molti anni si occupò di Propaganda Fide ed ebbe un ruolo determinante anche in queste questioni a fianco del papa Clemente XI.
E’ normale quindi trovare nella sua biblioteca libri che erano serviti a Carlo Agostino per documentarsi, edizioni a lui contemporanee sulla Cina o sul Giappone che sicuramente visti i temi trattati non avevano avuto un’ ampia tiratura e che oggi risultano essere esemplari quasi unici.
Un altro gruppo di libri da considerare rari, non per la loro difficile reperibilità, ma per la bellezza delle pagine illustrate, è una serie di libri di geografia o atlanti conservati nel bancone grande della biblioteca e provenienti sempre dalla libreria romana del cardinale.
Con la stampa a caratteri mobili il libro divenne lo strumento fondamentale per la divulgazione del sapere in tutti i campi. Le opere di documentazione geografica, nelle quali le carte hanno una medesima unità tematica o storica rappresentarono un prodotto particolarmente elaborato, frutto di un programma e di un’organizzazione complessa.
Pur dovendosi considerare eccezionali le dimensioni di un atlante conservato alla British Library di Londra, alto più di due metri, le opere geografiche richiedevano dimensioni adeguate per un’agevole leggibilità delle tavole e quindi erano stampate di solito in grande formato.
Intorno alla fine del Quattrocento vennero riprese a stampa le carte compilate nel II secolo da Tolomeo, e, da allora, La Geografia, divenne il prototipo dell’atlante moderno, il punto di partenza per la compilazione delle successive carte geografiche e la ‘vera bibbia’ sulla quale si sviluppò la storia della cartografia dall’età rinascimentale fino a oggi.
Nel Cinquecento il rinnovamento accademico della scienza cartografica venne attuato da cartografi di grandissima fama, che riordinarono in modo organico tutto il vasto materiale esistente al loro tempo, quando la scoperta del mondo si apriva verso nuovi continenti: l’America e la Australia. Primo fra tutti Gerardo Mercatore, che a Lovanio ricevette i primi insegnamenti dal matematico Gemma Frisio. Divenuto abile costruttore di astrolabi, di sfere armillari e di globi terrestri iniziò l’attività cartografica: dal suo laboratorio uscirono la grande carta d’Europa in quindici fogli e il planisfero per i naviganti in diciotto fogli,che segnarono la sua decisiva affermazione come cartografo, riconosciutagli ufficialmente da Carlo V.
Nel 1554 Mercatore incontrò il colto intellettuale Abramo Ortelio, l’attento viaggiatore appassionato di antichità e di numismatica. Fu per merito di Mercatore che Ortelio prese passione per la geografia, tanto da iniziare il grande progetto il Theatrum orbis terrarum finalizzato alla conoscenza dei “confini del mondo”, opera che pubblicò nel 1570 dedicandola a Filippo II, re di Spagna. Il titolo di Theatrum è emblematico: con quest’opera egli intendeva offrire al lettore- spettatore, l’immagine scenica del mondo. Notevole fu il successo di questa sistematica raccolta di carte geografiche di vari autori, molti dei quali italiani : in vita Ortelio ne pubblicò ventisette edizioni, tradotte nelle principali lingue.
L’esemplare del Theatrum conservato in Fabroniana fu stampato a Anvesra nel 1609.
Un ‘altra opera geografica proveniente dal fondo del cardinale Fabroni è la Geografia Blaviana, venuta alla luce ad Amsterdam nel 1622. I volumi in folio magno che compongono l’opera recano splendide carte geografiche abbellite da ornamenti a colori e in oro.
L’edizione presenta numerose carte storiche e politiche, in quanto l’attenzione dei cartografi è rivolta anche alla rappresentazione dell’evoluzione degli stati e dei popoli oltre che all’aspetto fisico delle regioni raffigurate.
Questi atlanti non sono opera solo di editori-cartografi, ma anche di artisti, come dimostrano i numerosi elementi decorativi: vascelli, onde increspate, castelli, abiti, animali ma anche vedute e piante di borghi o città, fanno da coronamento alla precisione tecnica delle tavole.