I gruppi marmorei del Cornacchini
Ai lati della porta che introduce alla sala della biblioteca si trovano due gruppi scultorei:
La Natività e La Deposizione dalla croce, opere conosciute ed apprezzate in tutto il mondo.
Si tratta di due opere in marmo di medie dimensioni, eseguite da Agostino Cornacchini a Roma per adornare l’appartamento nobile di Carlo Agostino Fabroni e che furono trasportate a Pistoia insieme alla raccolta libraria del prelato nel 1727.
I due lavori, che rappresentano la nascita e la morte di Cristo, sono tra le opere più suggestive del Cornacchini e in esse vi sono numerosissimi richiami alle statue fiorentine in bronzo- tecnica alla quale lo scultore era stato educato- nei dettagli naturalistici in piccole dimensioni.
Il Cornacchini, infatti, a undici anni dalla città natale si trasferì a Firenze ed entrò nella bottega- studio in Borgo Pinti di Giovanni Battista Foggini, il personaggio di gran lunga più influente nella scultura fiorentina barocca e architetto primario del granduca Cosimo III.
A Firenze il Cornacchini ebbe modo di conoscere Francesco Maria Niccolò Gaburri, vicedirettore dell’Accademia del disegno, membro dell’Accademia della Crusca che diverrà decisivo per la sua carriera.
Il Gaburri, che nel 1738 scrisse la biografia dello scultore pesciatino, gli commissionò le decorazioni in stucco per la sua casa di Firenze, e nel 1712 lo condusse con sé a Roma, dove lo mise sotto la protezione del nostro cardinale Fabroni.
Scrive il Gaburri:
[…] L’eminentissimo Cardinal Fabroni gli assegnò subito un quartiere nel suo palazzo, la tavola, e gli fece fare in oltre uno studio per l’arte nel suddetto palazzo, e oltre a questo dandoli di tanto in tanto qualche aiuto di abiti , e di denari.
Secondo i documenti. Il Cornacchini rimase in casa del Fabroni fino al 1720.
E’ durante questo periodo che egli scolpì alcuni Gruppi in marmo per l’Eminenza sua, che uno rappresenta la Nascita e l’altro la Morte di nostro Signore, lavorati con sommo spirito, intelligenza, diligenza e amore”, gruppi continua il Gaburri “[…]che si vedono ora collocati nella bellissima Libreria del predetto Cardinal Fabroni, eretta interamente a proprie spese, sopra la chiesa dei PP. Filippini di Pistoia[…]”
La Natività, ambientata architettonicamente e con il capannello di diverse figure, trae ispirazione dal presepio romano e in particolare dal trattamento scenografico dello stesso soggetto marmoreo eseguito da Monnot per la chiesa romana di S. Maria della Vittoria, ma aggiunge alla scultura romana i richiami naturalistici e soprattutto un senso intimistico proprio della scultura fiorentina della scuola del Foggini.
E’ da ricordare che il gruppo della Fabroniana fu preparato da un bozzetto in terracotta conservato al Victoria and Albert Museum di Londra, ridotto al gruppo sacro e che in questa redazione finale in marmo il Cornacchini aggiunse l’ambientazione delle rovine, di un angelo volante recante un cartiglio sospeso su una nube e di un suggestivo pastore scalzo in primo piano.
Il legame profondo con la scultura fiorentina dei primi decenni del Settecento è visibile nel tono familiare della scena, nella dolcezza e nelle espressioni dei volti; la Madonna ha un sorriso mite e appena accennato e può essere confrontata con simili tipologie femminili presenti nelle decorazioni dei palazzi nobiliari fiorentini del tempo.
Ancor più che nella Natività il riferimento con la cultura toscana del tempo è evidente nell’altro gruppo, quello della Deposizione, dove l’interesse per i particolari superficiali, come la corteccia della croce, avvicinano l’opera del Cornacchini ad alcuni bronzi di Giovan Battista Foggini e Massimiliano Soldani Benzi.
Il tono dolce, accostante della Natività trova il suo opposto nella scena della Deposizione, dove
la complessa composizione con molte figure impegnate nella scena narrativa, e l’uso di forme più aspre rendono il tono drammatico.
Se il teschio in primo piano posto su un arido terreno roccioso è simbolo della caducità delle cose terrene e memento mori è l’angelo sulla sinistra che avvolto in affannosi drappeggi, non riesce ad alzarsi in volo, che assume una particolare espressione di phatos, anche maggiore di quella data dal corpo inerte del Cristo al centro della scena e del volto sofferente della Maddalena sulla destra.
Le due opere scultoree della Fabroniana, sono gruppi tridimensionali fortemente innovativi che benché eseguiti per esser posti appoggiate ad una parete sembrano rivelare il loro senso estetico più forte se visti da altre prospettive.
I gruppi del Cornacchini, che come abbiamo visto essere stati donati dal Cardinale assieme alla collezione libraria sono citati molte volte nei documenti riguardanti le visite triennali del Vescovo alla biblioteca o negli elenchi patrimoniali redatti dai vari bibliotecari nei secoli.
Tra queste carte vi sono anche una serie di documenti capitolari che dimostrano l’attenzione posta dagli amministratori della biblioteca non solo alle opere librarie ma anche e soprattutto alle opere d’arte presenti.
Nel 1851 il bibliotecario in carica, Ugo Ranieri Marini, addirittura si fece notare come ‘esperto’ di museografia e propose al Capitolo una diversa collocazione delle opere sia per migliorarne la loro fruizione artistica ma anche a suo parere per ottenerne una più attenta custodia.
Come avendo fatto attenta riflessione al luogo ove più artisticamente, e degnamente porli, ho trovato che nella stessa Biblioteca, ai due lati del Banco del Crocifisso, presso l’imbasamento delle Colonne che son di fronte alla Biblioteca vi starebbero , certo, come in suo luogo. Quelle figure in marmo bianco rilevate a piramide, e staccate senza fondo acquisterebbero molta bellezza trovandosi fra delle masse scure, e ad aver dietro un fondo parimente scuro, mentre presterebbe graziosa armonia il resto del disegno della Biblioteca; ed il Cristo di Gian Bologna alzato fra di esse sorprende di religioso rispetto chiunque entra la Biblioteca medesima
Il bibliotecario, che per altro era responsabile anche delle opere non librarie della biblioteca, si spinge oltre dicendo che nell’atrio dove i due gruppi si trovano, “senza compagnia d’altri oggetti d’Arte”, la loro mancanza potrebbe “senza disturbo all’occhi” essere colmata semplicemente con “due sedili, o da qual’altro vogliansi mobile”.
Le considerazioni del Marini , molto probabilmente, non furono prese in considerazione dai canonici, così l’anno seguente lo stesso bibliotecario tornò alla carica chiedendo il trasferimento dei due gruppi, questa volta facendo presente la loro “precaria” sistemazione.
Gli ultimi furori del vento accrebbero i miei timori sulla sicurezza locale dei due Gruppi di Marmo appartenenti alla Biblioteca, poiché entrando io nel vestibolo quando ancor non era cessato l’uragano, trovai spalancati due Finestroni, e i piedistalli, e i Gruppi stessi talmente agitati da mettere spavento Ai finestroni è stato provveduto: siffatto temporale forse non si rinnoverà, ma si rende indispensabile pensare prontamente a quei preziosissimi oggetti d’arte ornamento e ricchezza della Biblioteca medesima.
Sulla questione venne chiesto un parere all’ingegnere Giovanni Gambini, che dopo aver sottolineato la mancanza di stabilità delle due opere dovuta alla “strana forma” dei piedistalli dove le opere erano collocate, propose di intervenire assicurando le basi alla parete con delle grappe di ferro.
La proposta del ‘tecnico’ dovette essere ritenuta la migliore dal Capitolo, che l’anno seguente fece eseguire i lavori di fortificazione delle basi, rendendo ancora una volta vane gli sforzi del Bibliotecario, che da quel momento dovette, suo malgrado, abbandonare le sue idee di una nuova sistemazione delle opere.
Alcuni anni più tardi, il bibliotecario in carica non solo non dava nessun giudizio critico su i gruppi marmorei, ma addirittura riteneva opportuno tenere i “medesimi coperti con tende di lana bianca per difenderli dalla polvere”.
Il crocifisso
Su uno dei due mobili che si trovano nella sala della biblioteca è conservato un crocifisso in bronzo su croce lignea.
Nella sua donazione il cardinale Fabroni incluse anche gli arredi e le opere d’arte che si trovavano nel suo studio a Roma. Il documento parla di “un bancone grande di legno indiano, e l’altro minore del medesimo legno”, ma non riferisce niente a proposito del crocifisso.
Del crocifisso e di una sua attribuzione ad Alessandro Algardi (Bologna 1598- Roma 1654), si ha notizia invece nei vari inventari patrimoniali della Fabroniana redatti nei secoli successivi. In effetti se si confronta l’opera della nostra biblioteca con i lavori dell’artista bolognese, questa attribuzione è sicuramente plausibile.
Il crocifisso fabroniano ha un’altezza di settantasei centimetri dai piedi alla testa e si trova su una croce lignea che presenta un cartiglio con l’iscrizione “Inri”.
Dalle notizie biografiche di Alessandro Algardi, artista recentemente rivalutato in ambito nazionale ed internazionale, che è da considerare l’altro grande protagonista del barocco romano insieme al più famoso Gianlorenzo Bernini, sappiamo che all’incirca nel 1646 consegnò al papa Innocenzo X un crocifisso in argento di circa tre palmi, oggi irreperibile, ma da identificarne il modello con quello conosciuto attraverso numerose fusioni in bronzo nelle collezioni seicentesche. L’attribuzione è confermata da una netta somiglianza con un disegno incentrato sullo studio dell’anatomia del corpo di Cristo sospeso alla Croce, oggi conservato alla Galleria estense di Modena e la stessa commovente e quasi teatrale raffigurazione del soggetto di un disegno oggi conservato alla National Gallery of art di Washington.
I due disegni preparatori e le fusioni in bronzo, delle quali una conservata nella chiesa romana di S. Maria del Popolo ci mostrano elementi tipici dell’Algardi quali “l’emotività intensa ma composta dell’immagine, la lieve curvatura del corpo e la ricaduta ritmata del perizoma robustamente modellato ed aderente alla coscia sinistra, […] la struttura della testa, i riccioli piuttosto pesanti e il modo di lavorare la barba”.
Sono questi tutti elementi che ritroviamo nel crocifisso fabroniano che come tutti gli altri modelli e disegni è caratterizzato dall’uso di quattro chiodi.
Il numero dei chiodi che avevano trafitto le mani ed i piedi di Cristo fu sempre oggetto di lunghe dispute. In Italia il numero di tre venne via via affermandosi soprattutto dell’emblema dei Gesuiti. Se i piedi sono sostenuti da un solo chiodo, essi vanno necessariamente sovrapposti, fatto che tende ad aumentare la piegatura delle ginocchia e la curvatura delle gambe: forse fu questa una delle ragioni per cui Algardi preferì usarne sempre due.
Il crocifisso conservato in Fabroniana è sicuramente un esemplare importante e come quello conservato a Roma ha una finitura assai pesante che corrisponde a quella riscontrata in molti bronzi tardi dell’Algardi, come il Battesimo di Cristo, oggi conservato al Museo d’arte di Cleveland.
Come tutte le opere scultoree dell’Algardi ha un carattere più contenuto e lirico e rappresenta una sensibilità più mite che controbilancia lo stile barocco più estroverso del Bernini, altro grande interprete del Seicento romano.
Il Ritratto del cardinale
La figura del cardinale è molto antica, risalente almeno al IV secolo sotto il pontificato di papa Silvestro I.
E’ la più alta dignità ecclesiastica con il compito di collaborare strettamente con il papa al governo della Chiesa universale.
La diffusione iconografica di questa importante figura è piuttosto ampia, sia nelle rappresentazioni di episodi di storia della Chiesa, sia soprattutto nella ritrattistica.
Nel ritratto ufficiale il cardinale doveva essere rappresentato seduto ed era contraddistinto da elementi peculiari quali l’abito color porpora, il cappello cardinalizio o galero e spesso l’anello che era uno dei maggiori simboli di dignità ecclesiastica. Al posto del galero spesso troviamo ritratti nei quali i cardinali indossano un particolare berretto rosso a tre o quattro spicchi, un copricapo che fu concesso nel 1464 ma che definì completamente la sua fama solo verso la metà del XVI secolo.
Prerogativa dell’abito dei cardinali, come del papa, è poi la mozzetta, una sorta di mantellina chiusa con bottoni sul davanti e con un piccolissimo cappuccio dietro. A seconda del periodo e della moda del tempo dalla mozzetta spesso spunta fuori un colletto bianco. Sopra l’abito il cardinale indossa poi il rocchetto, un camice bianco ampio e non molto lungo, che tra il XVI e XVII secolo si cominciò a decorare di pizzi sia sul fondo che nelle maniche. Il rocchetto non era un paramento sacro, ma un vestito riservato.
Veniamo ora al nostro cardinale Carlo Agostino Fabroni.
Nella sala della biblioteca è conservato in alto sopra il secondo ordine di scaffali un ritratto che rappresenta il nostro cardinale.
Si tratta di un’ opera ad olio eseguita dal pittore pistoiese Gian Domenico Piastrini ( 1678-1740) molto presumibilmente nell’ultimo periodo di vita del cardinale : Carlo Agostino appare infatti molto anziano, con i capelli grigi e il volto rugoso ed incavato. E’ seduto e tiene un libro in mano, forse per ricordare il munifico gesto della donazione della sua Libreria o forse solo perché i libri erano le cose più care a cui teneva, i compagni fedeli della sua vita. Indossa la mozzetta dalla quale spunta un ampio rocchetto, mentre in testa porta il berretto a quattro spicchi.
Piastrini ebbe uno stretto legame con il nostro Fabroni ,citato sia come suo protettore e finanziatore di alcuni viaggi nel nord Italia, che come punto di contatto con il mondo artistico romano, ove ottenne un rapido inserimento nella scuola del Luti e importanti commissioni in abito ecclesiastico.
Come abbiamo visto anche a Pistoia il Fabroni fu determinante per l’attività del pittore che su commissione del nostro eseguì i quattro grandi affreschi dell’atrio della Basilica della Madonna dell’Umiltà nel 1716.
Prima di mettere a confronto l’opera della Fabroniana con altri ritratti del cardinale, è interessante sottolineare che vi sono documenti d’archivio che non ci forniscono dati certi circa l’apposizione del quadro ma che invece ci danno notizie su altri eventi ad esso legati.
Dagli Atti capitolari dell’anno 1885 si apprende che i canonici “danno la facoltà al pittore Ugo Casanova di portare nel suo studio il ritratto del Card. Fabroni esistente nella Libreria Fabroniana, per eseguirne una copia per commissione della famiglia Caselli e da un inventario di beni si apprende ancora che il quadro in questa occasione venne restaurato da questo pittore-decoratore attivo a Pistoia tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900.
Assieme al Piastrini un altro pittore fece parte della cerchia del cardinale Fabroni e Roma e ne lasciò memoria dipinta , Benedetto Luti (1666-1724).
Fiorentino di nascita e allievo di Anton Domenico Gabbiani, Luti si trasferì a Roma nel 1690, dove studiò la maniera dei grandi maestri del Cinquecento e si dedicò anche al collezionismo di quadri, stampe e manoscritti. Secondo i biografi intorno al 1704 proprio il Fabroni gli affidò l’educazione artistica del giovane pittore pistoiese Piastrini.
Una volta divenuto cardinale fu il Luti a delineare il volto del Fabroni che Jacob Frey (1681-1752) avrebbe poi inciso a bulino e che sarebbe stato stampato dalla Calcografia camerale da Domenico De Rossi.
Al Luti è attribuito, inoltre, un ritratto ad olio di medie dimensioni oggi conservato nei depositi di Palazzo Pitti.
Il personaggio, posizionato in primo piano, di tre quarti, è senza dubbio un cardinale, com’è indicato dalla veste indossata, una mozzetta rosso scarlatto, tipica mantellina portata al di sopra del talare dello stesso colore e del rocchetto bianco, di cui qui intravediamo il colletto e una manica. Sulla testa ha uno zucchetto, il copricapo di forma emisferica portato dagli ecclesiastici e variabile nel colore a seconda della carica: nel caso dei cardinali è di colore rosso, come in questo caso.
Fra le braccia tiene un oggetto che, seppur avvolto in un panno, sembra essere un libro, di cui però non vediamo il titolo. Lo sfondo scuro e non emergono decorazioni.
L’opera fu donata da Carlo Gamba alla Galleria degli Uffizi nel 1951. Il Gamba nella lettera di accompagnamento all’opera identifica il soggetto del ritratto con il cardinale Carlo Agostino Fabroni, suo antenato: la nonna del conte, Eugenia Caselli, fu infatti l’ultima discendente della famiglia Fabroni. Gamba ereditò il dipinto dalla madre, Eufrosina Gamba Caselli, che è indicata come proprietaria dell’opera nel catalogo della “Mostra del ritratto italiano” tenutasi nel 1911 a Firenze.
L’identificazione del personaggio del ritratto con il cardinale Fabroni, riportata dal conte Gamba nella lettera del 1951, fu successivamente confermata da cataloghi e inventari: in primo luogo, dall’inventario cartaceo, istituito nel 1890, e dal catalogo digitalizzato del Polo Museale di Firenze, in cui Fabroni è indicato come probabile soggetto del dipinto. In essi, inoltre, è riportato come anno d’esecuzione il 1706, l’anno nel quale quando il Fabroni fu creato cardinale.
Nel 1999, il ritratto è stato menzionato nel catalogo della collezione Rospigliosi del Palazzo Pallavicini, a Roma, dove è presente anche un secondo ritratto del cardinale, anch’esso datato 1706, eseguito da Benedetto Luti.
Il confronto tra i due ritratti fa sorgere però alcuni dubbi circa l’attribuzione di entrambi al Luti.
Pur credendo difficile che il conte Gamba abbia sbagliato il riconoscimento di un antenato (errore che sarebbe stato corretto fin da tempi più antichi, all’interno della famiglia), notiamo che i tratti fisionomici dei due personaggi raffigurati sono diversi. Il cardinale del ritratto fiorentino sembra un uomo sulla quarantina (Fabroni nel 1706 dovrebbe avere 55 anni), con il volto pieno e rotondo, occhi piccoli, naso sottile e mento poco sporgente. Ha folti capelli neri e baffi sottili. Le spalle sono larghe, indicando quindi una corporatura robusta. L’espressione è serena e tranquilla. Tutto il contrario
invece il ritratto romano. Il volto è più magro, la zona occhi ampia e incavata, con occhiaie gonfie. Il mento è prominente e il naso pronunciato. I capelli sono meno folti e presentano un inizio di brizzolatura. La corporatura sembra più esile. L’espressione è più severa e trattenuta. Posto che, secondo autorevoli attribuzioni, quest’ultimo è senza ombra di dubbio il cardinale Fabroni1 ritratto a cinquantacinque anni è comprensibile avanzare dubbi sull’identità del soggetto del ritratto di Palazzo Pitti.
Confrontando i due “luti” con il ritratto della Fabroniana, notiamo che l’espressione è più
serena rispetto al dipinto rospigliosiano, ma i tratti del volto sono identici: sono
uguali le occhiaie, il naso, il mento e la bocca. La stessa analogia però non sussiste nei riguardi del ritratto fiorentino.
Come già detto, è difficile credere che il conte Gamba abbia commesso un tale errore, e ancora più incredibile appare il fatto che il dipinto sia passato in mano a vari suoi antenati, senza che nessuno si accorgesse dello sbaglio.
Un’ipotesi plausibile sarebbe quella di pensare che il ritratto sia stato eseguito postumo e che per questo motivo non rispecchi esattamente le sembianze del cardinale.
Ma rimane appunto solo un’ipotesi, non supportata da nessun documento.
Una cosa è certa, gli eredi dei Fabroni e in particolare il nipote del cardinale, l’abate Alfonso Fabroni possedeva sicuramente un quadro di Benedetto Luti. Da una scritta riportata su stampa che riproduce il busto di Carlo Agostino cardinale, disegnata dal pittore pistoiese Giuseppe Valiani ( 1731-1800) e incisa da Raimondo Faucci (1760-1793) nel 1765, apprendiamo infatti che tale opera fu dedicata al nipote del cardinale e che il soggetto era stato “preso da un quadro di Benedetto Luti esistente appresso il medesimo signor abate”.
Ma i ritratti non finiscono qui.
A Pistoia è conservato un’altra opera che raffigura il nostro cardinale.
Si tratta di un quadro conservato nella Sacrestia della Chiesa di S. Ignazio. Il soggetto del dipinto si apprende dall’iscrizione sulla carta tenuta in mano dal personaggio rappresentato : Ritratto del cardinale Carlo Agostino Fabroni, mentre l’esecutore si ricava da una carta posta in basso che recita “All’Eminentissimo e Reverendissimo Sig.re/ Il Sig.re Card.Le Fabroni/Per/ Giovanni Battista Lurchini di Pistoia”.
Il Lurchini, fu pittore e sacerdote attivo a Pistoia nella prima metà del Settecento.
Nel quadro il cardinale è raffigurato di profilo davanti ad uno scaffale di libreria. Ha il berretto in testa e dalla mozzetta spunta fuori un rocchetto assai ricco. Accanto a lui sulla sinistra un tavolinetto sul quale sono appoggiati due libri, di cui però non leggiamo i titoli sui dorsi e un particolare in secondo piano che ci risulta molto familiare.
Si tratta della parte alta del calamaio di cui il nostro cardinale si serviva per scrivere, un oggetto a lui molto caro che menzionò addirittura nel testamento e del quale, nelle sue ultime memorie ordinò, ci si servisse “in specie nella revisione de’ conti” della sua amata biblioteca Fabroniana.
La porta dipinta
Tromp-l’oeil è un’espressione francese che noi tradurremmo come inganno o illusione.
Sull’ultimo pianerottolo dello scalone che introduce alla sala di lettura chi volesse allungare la mano a prendere qualcuno dei libri disposti in chiara mostra, di quell’inganno avrebbe l’immediata percezione: infatti non si troverebbe a toccare degli antichi volumi ma una tela dipinta.
Per preparare il lettore al magnifico spettacolo che avrebbe trovato entrando nella biblioteca Fabroniana si pensò di far eseguire un pannello decorato da anteporre alla vera e propria porta di entrata.
Si tratta di una tela dipinta su entrambi ei lati e incorniciata con assi di legno a loro volta incardinati come una porta.
Non esistendo notizie certe sull’esecuzione di questa tela ci limiteremo a darne una descrizione e a fornire delle possibili tesi sulla sua esecuzione.
La tela presenta nella sua parte anteriore una decorazione che riproduce uno scaffale ligneo di libreria. Nella parte alta del dipinto i libri sono armonizzati nelle legature, nella disposizione sugli scaffali in naturale alternanza tra pieni e vuoti, nella tangibilità della loro presenza.
Riusciamo a leggere nei dorsi dei volumi di che cosa si tratti e con sorpresa notiamo che sono dipinti gli stessi testi poi presenti nei ‘veri’ scaffali della biblioteca poco più avanti.
Purtroppo la datazione di questi volumi non ci permette di datare l’esecuzione della porta perché i libri dipinti sono nella loro realtà ‘libraria’ tutte edizioni anteriori alla edificazione della Fabroniana. Solo la presenza di un testo posizionato nella dimensione’dipinta’ sopra gli altri volumi e recante la scritta “Catalogo “ ci può far datare la porta dopo il 1737. E’ in fatti a quella data che si riferisce il primo catalogo della biblioteca.
Tangibile e quasi a portata di mano sono anche gli oggetti in primo piano: il calamaio e il foglio di carta scritto con un pennino d’oca.
Mentre il calamaio dipinto ritrae quasi sicuramente quello ‘reale’ in argento appartenuto al cardinale Fabroni, che ha la stessa forma, sulla carta, resa quasi del tutto illeggibile dall’usura dei tempi, non è possibile rintracciare un documento realmente contenuto tra le filze dei manoscritti. E’ presumibile però che questa carta possa essere messa lì come cartiglio di dedica con la firma dell’esecutore del dipinto.
Nonostante questa tela abbia sicuramente un efficace effetto scenografico essa rivela nella sua esecuzione la mano di un artista non di grandissimo valore; manca quasi del tutto il senso prospettico e la pennellata appare spesso incerta.
A differenza di quanto finora detto su tale opera, cioè che fu eseguita durante i lavori di decorazione dello scalone e potrebbe quindi attribuirsi o a Girolamo Tani detto il Frelli, l’ ipotesi a mio parere più probabile, è che la porta fosse eseguita alcuni anni più tardi, e tornerebbe la data sopra accennata del 1737, forse da un decoratore che lavorava nell’adiacente convento dei Filippini, o addirittura da uno stesso membro di tale ordine che si dilettava nella pittura.
Ad avvalorare questa tesi concorrerebbe il fatto che nella parte interna della porta, o retro della tela, accanto allo stemma del cardinale fondatore viene costruito lo stemma degli Oratoriani.
Si tratta un blasone dove il cuore fiammeggiante oltre a ricordare il cuore di san Filippo e l’infusione dello Spirito Santo nel suo costato, simboleggia altresì, il vicolo della carità che deve unire i confratelli oratoriani. I due gambi di gigli, fioriti e fogliati, rappresentano quindi, i simboli dell’innocenza e della purezza, virtù da coltivare e perseguire. Infine le tre stelle a 8 punte mal ordinate, sono il richiamo alla verginità di Maria.
Di porte dipinte erano piene le case nobiliari anche pistoiesi del Settecento. Vi erano stuoli di decoratori che lavoravano per dare a quei palazzi l’importanza e la dignità di una casata di tale rango.
Ma l’esempio della Fabroniana è sicuramente un ‘caso’ a se stante che a mio parere ricorda e suggerisce un dipinto di prestigiosa mano conservato nel Conservatorio della Musica di Bologna.
Mi riferisco a l’opera che, verso la fine del secondo decennio del Settecento, Giuseppe Maria Crespi (Bologna, 1665-1747) inventò per decorare due sportelli di libreria.
Il Crespi, detto lo “Spagnolo” per la foggia prediletta dei suoi abiti, riuscì a condensare in quelle superfici, con fedeltà alla materia e intelligenza degli spazi, comprensione dei contenuti culturali e vita vissuta.
Nell’opera, dove si intravede la lezione stimolante dei grandi pittori olandesi e spagnoli del Seicento, protagonisti sono gli oggetti, addirittura i componenti di essi, la carta , la pergamena, le pelli più o meno consunte, variabili in tono sommesso a secondo delle vibrazioni della luce o del maggior accumulo della polvere. Anche nell’opera di Crespi riusciamo a leggere sui dorsi di che cosa si tratti: musica ovviamente e anche qui tangibili sono gli oggetti da scrittura sul primo ripiano: il calamaio con la penna, gli spargi pomice, l’anforetta con l’inchiostro, il mazzetto legato di penne d’oca.